Da #HotAnxiousGirl a #TheSadGirlAesthetic: i rischi di idealizzare la malattia mentale sui social media
Nelle profondità di quel tunnel esteticamente curato che è l’hashtag #SadGirl su Instagram si trova una foto di archivio in bianco e nero che raffigura Joni Mitchell a cui è sovrapposta la scritta “Un’altra canzone di Joni Mitchell e l’esaurimento nervoso è assicurato”. L’immagine è una delle tante pubblicate da account come quello ironicamente intitolato @ihatekatebush, che associa foto di icone della cultura pop a commenti frivoli e ironici sulla malattia mentale. Mentre @ihatekatebush preferisce musiciste folk perennemente addolorate, @femcelpilled666 gravita invece intorno a personaggi fittizi instabili e incredibilmente attraenti. Uno dei meme dell’account vede Angelina Jolie in Ragazze interrotte – un motivo ricorrente del trend – con sopra la scritta ‘“Voglio uscire con altre persone”. Ma allora tutte le voci che ho in testa? Ci sono almeno cinque persone qui dentro’.
Negli ultimi dieci anni i social media sono stati inondati da contenuti sulla salute mentale. Alcuni account sono effettivamente informativi utilizzando il linguaggio della società sempre più sciolto sulla psicologia popolare, altri invece stigmatizzano, banalizzano e, nel caso delle donne, idealizzano i disturbi psicologici. Dopo tutto, il settore dei media e dello spettacolo intrattiene da tempo una relazione controversa con la malattia mentale delle donne: dal tropo della pazza isterica che emerge a sfondo horror (Jane Eyre) e sessuale (Basic Instinct), alla copertura mediatica sessista che i tabloid riservano agli esaurimenti nervosi delle VIP.
L’approccio di TikTok può risultare altrettanto spinoso. Il mese scorso Priya Patel, la titolare dell’account TikTok @littlemiss_adhd_, ha caricato un video di tre minuti in cui rimproverava gli altri creator per il fatto di rappresentare questo disturbo come poco più di una stramberia del momento. “Pensate sia trendy vivere in un mondo che non è pensato per come sei fatta?” afferma. Il video, da cui emerge un invito a unirsi per rappresentare questo disturbo in modo più accurato, ha generato 432.000 like.
Ciò a cui si riferiva Patel erano i contenuti contraddittori sull’ADHD che si trovano sull’app, che oscillano tra la catalogazione dei sintomi e sketch comici che mettono in scena i tratti comuni di questo disturbo, in particolare nelle donne. Attualmente, l’hashtag #ADHD vanta ben oltre 21 miliardi di visualizzazioni. Secondo Patel, che lavora come assistente sociale per la salute mentale ed è affetta da ADHD, questo trend potrebbe portare all’autopatologizzazione, alla disinformazione e all’annullamento delle esperienze delle donne. “Penso che nel caso delle donne l’ADHD possa venire rappresentato come qualcosa di fantasioso, come se fosse qualcosa di bizzarro che ispira tenerezza. Ci ritraggono come svampite e con la testa tra le nuvole, ma le cose non stanno affatto così”, spiega.
Su Twitter, l’hashtag #HotAnxiousGirl – segnalato da Twitter come “contenuto sensibile” – mette sfacciatamente sullo stesso piano la malattia mentale e l’avvenenza fisica (in un mondo in cui il termine “psycho” è arrivato a incarnare l’antitesi dell’attrazione maschile, forse ha senso che le donne stiano abbracciando l’idea di essere sexy e mentalmente instabili). Nel frattempo, tra i tweet che sfruttano il microtrend della ragazza triste ci sono “Solo una ragazza triste e carina con i capelli spettinati” (@maryamBaba_) e “Consiglio di benessere: molla l’inverno da ragazza triste e abbraccia l’eternità da ragazza clinicamente depressa” (@futurepoppop). Usando le parole di Kaitlyn Tiffany in The Atlantic: “Attraverso i loro tweet si identificano come persone attraenti, sognatrici e che pensano troppo, e professano malinconia e desideri romantici”.
Negli anni formativi dei social media, i contenuti che idealizzavano la salute mentale erano più espliciti. Le viscere oscure e non monitorate di Tumblr erano inondate dall’hashtag #ProAna (pro-anoressia), e Pinterest e Instagram sono stati citati come una delle cause del suicidio dell’adolescente britannica Molly Russell.
Eppure, alcune persone direbbero che ora i social media sono monitorati sempre meglio e offrono un ritratto più equilibrato della salute mentale. Instagram pullula di infografiche in colori pastello che dispensano fatti e consigli sulla malattia mentale, e si può dire che fornisca un senso di comunità per le persone che soffrono, molte delle quali non hanno altro appiglio a cui aggrapparsi, in particolare in un momento in cui i centri di salute mentale sono al collasso (anche la clinica della città in cui vive Patel ha chiuso di recente per mancanza di fondi, lasciando dietro di sé il “caos totale”). Sono inoltre in grado di regalare un po’ di leggerezza, spesso indispensabile. “Alla fine, penso anch’io che una risata, nel momento giusto, abbia un potenziale liberatorio. Di sicuro ti fa sentire meno sola” afferma Sushrut Yadav, la mente dietro @ihatekatebush.
Ma Yadav riconosce la delicatezza della situazione e consiglia di trovare una via di mezzo. “Purché coltiviamo anche uno spazio virtuale in cui parlare di questi temi con la giusta serietà, non dovrebbe esserci alcun male nel riconoscersi, una volta ogni tanto, in queste figure straordinarie”, afferma. Nonostante il suo video appassionato, Patel elogia i contenuti di TikTok sulla salute mentale. “Ci sono dei creator eccellenti su TikTok… Questo ha aiutato moltissimo a sensibilizzare sul tema. Spesso penso che se non ci fosse stata quell’app, adesso non avrei avuto la mia diagnosi e starei ancora lottando con il problema”.
I benefici dei social media contribuiscono però a compensarne le debolezze? È una domanda, questa, a cui non si può, e a cui sarebbe inutile, dar risposta poiché continuano a colonizzare il nostro spazio cerebrale con impunità. Quello che possiamo fare è continuare a spingere per un monitoraggio più severo dei contenuti, in particolare nel nascente metaverso in espansione, segnalare contenuti potenzialmente pericolosi e prestare attenzione quando si fa scrolling.
Juno Kelly è una redattrice e giornalista che si occupa di cultura internet, cronaca sociale e profili. Ha scritto per The Cut, The Fence, LOVE Magazine e altre riviste